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Cecità, di Saramago: l'umanità cieca che, pur vedendo, non vede.


"Non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che, pur vedendo, non vedono".

Cosa accadrebbe se, improvvisamente, tutti diventassimo ciechi senza un motivo?

Le persone cambierebbero? L'umanità cambierebbe?

Puo' sembrare strano, ma la risposta è No.

E la risposta la potrete avere leggendo Cecità, di Saramago (Premio Nobel per la Letteratura nel 1998), ma dovrete essere bravi a "vederla" tra le righe che compongono una delle storie più crude, assurde ma nello stesso tempo reali che io abbia letto.


Una volta diventati cieche, le persone vengono trasferite in un manicomio (perchè vi è pazzia in tutto questo, non tanto nell'essere ciechi, quanto nel "non vedere", è proprio questo il messaggio del romanzo: il non essere capaci di vedere, da vedenti). E' lì che i ciechi trascorreranno, rinchiusi come in un carcere, la loro quarantena, sorvegliati (solo per modo di dire) da guardie armate.

I protagonisti sono gli uomini, tutti. Siamo noi; ma in questa storia, i principali protagonisti non hanno nome, sono identificati da caratteristiche e ruoli:

Il medico, il primo cieco e sua moglie, la ragazza dagli occhiali scuri, il vecchio con la benda nera sull'occhio, il ragazzino strabico, il cane delle lacrime e, soprattutto, la moglie del medico: è lei la vera priotagonista del romanzo, l'unica che non viene colpità dalla cecità e continua a vedere in un mondo di ciechi; si finge cieca anche lei per stare vicino al marito e viene rinchiusa nel manicomio.

E' lei la più buona, la figura veramente positiva nel romanzo, e sarà positiva e giusta, paradossalmente, anche quando ammazzerà. Ebbene sì: la persona più buona ammazzerà, crudelmente, restando buona e giusta.


"... a cosa ci sarebbero serviti i nomi, nessun cane ne riconosce un altro, o si fa riconoscere, dal nome che gli hanno imposto, è dall'odore che identifica o si fa identificare, noi, qui, siamo come un'altra razza di cani, ci conosciamo dal modo di abbaiare, di parlare, il resto, lineamenti colore degli occhi, della pelle, non conta, è come se non esistesse..."


Durante la permanenza in isolamento, vi è l'abbandono più totale.

I ciechi vengono lasciati soli e dimenticati dalle guardie, dal Governo; non sanno nulla di cosa stia accadendo realmente "là fuori", solo una radiolina con le pile scariche darà loro qualche informazione. Si perde anche la cognizione del tempo.

"... Essere cieco non è tale e quale a essere morto, Sì, ma essere morto è tale e quale a essere cieco..."


La quarantena, l'isolamento e soprattutto l'abbandono comportano la nascita di una autogestione interna tra ciechi.

E come possono autogestirsi dei ciechi?

La visione di Saramago è pessimista, cinica e, purtroppo, realista: si divideranno in ciechi malvagi e ciechi buoni. I malvagi saranno in minoranza ma più violenti: armati, minacceranno i ciechi buoni, impossessandosi anche dei loro beni alimentari, ricattandoli.

Ci sarà violenza, prostituzione forzata, marciume e non solo nell'aria, morte.

Ma è poi tanto diverso da ciò che accade nel mondo in cui "vediamo" e viviamo?

"Trascorsa una settimana, i ciechi malvagi mandarono a dire che volevano donne. Così, semplicemente, Portateci delle donne. [...] Se non ci portate delle donne, non mangiate."


La scrittura di Saramago scorre veloce, a tratti anche troppo, prende le sembianze di un flusso di coscienza con virgole. E così a me piace, perchè è una scelta adatta alla storia che si vuole raccontare, rende la lettura poco chiara, non delineata, diventiamo come ciechi che parlano e ascoltano altri ciechi. E' una scrittura cieca, da cieco.

La punteggiatura nei dialoghi non esiste, il flusso e la lettura non si interrompono quasi mai: sono solo le maiuscole a distinguere chi parla e quando.


"... Le immagini non vedono, Ti sbagli, le immagini vedono con gli occhi che le vedono, solo adesso la cecità è davver generale, Tu ci vedi ancora, Ci vedrò sempre meno, anche se non perderò la vista diverrò sempre più cieca di giorno in giorno perchè non avrò nessuno che mi veda..."

(dialogo tra il medico e la moglie del medico)


La cecità in questo romanzo è bianca come il latte. Non è buia, il cieco vede tutto bianco. E i colori sono presenti subito: nelle prime cinque righe vi sono le parole giallo-rosso-verde-nero-bianco.

"Il cieco si portò le mani agli occhi, le agitò, Niente, è come se stessi in mezzo alla nebbia, è come se fossi caduto in un mare di latte, Ma la cecità non è così, disse l'altro, la cecità dicono sia nera, Invece io vedo tutto bianco..."


La storia è cruda, fredda, violenta, ma a tratti Saramago la condisce di ironia, con sottili battute e numerosi riferimenti a proverbi e modi di dire (probabilmente l'autore ne era appassionato).


I ciechi riusciranno a scappare dal manicomio di violenza e morte, e si ritroveranno per le strade in cerca delle loro abitazioni.

Il mondo là fuori è diventato tutto cieco, la strade sono sporche di cadaveri, merda, spazzatura; la gente, non vedendo più, non sa ritrovare la propria casa e vive in altre case, occupandole.

Sarà la moglie del medico ad aiutare il suo gruppo a ritrovare la strada di casa e soprattutto il cibo per la sopravvivenza.


Il romanzo si conclude così come era iniziato: improvvisamente, così come era andata via, la vista ritornerà a tutti, inspiegabilmente. O forse No.


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